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di Corrado Oddi (Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua)

1. Non c’è dubbio che ormai siamo di fronte ad una vera e propria campagna disinformativa sull’esistenza di un forte divario tra la situazione e le prestazioni del servizio idrico nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord ( il cosiddetto water service divide). Dal governo ad Arera, da Utilitalia ai principali organi di stampa, è tutto un susseguirsi di narrazioni che mettono al centro tale tema e, anzi, lo fanno diventare la questione fondamentale dello stato dei servizi idrici nel Paese. La strumentalità di tutto ciò è sin troppo evidente, visto che a questa analisi più che sommaria si fa conseguire la necessità di dare finalmente un orizzonte industriale a questa parte del Paese che ne sarebbe mancante e che, in realtà, va a finire nel proporre una forte spinta delle privatizzazioni, a partire dal Mezzogiorno.

Intanto, vale la pena essere un po' più precisi nel definire e ragionare su questo divario e nell’affrontare la situazione del servizio idrico nell’insieme del Paese. Così facendo, il primo dato che emerge è che non siamo in presenza di un Centro-Nord “moderno” e di un Mezzogiorno “arretrato”. La realtà è un po' più complessa e variegata: senza nascondere i problemi esistenti in vaste aree del Sud, su cui peraltro bisognerebbe essere più seri sulle sue origini, va detto, in primo luogo, che questa suddivisione – Centro Nord da una parte e Sud dall’altra- è quanto meno equivoca e si presta a volute semplificazioni, quali quella famosa della “media del pollo”. Faccio un esempio molto concreto per spiegarmi meglio, prendendo a riferimento la situazione delle perdite delle reti idriche, riconosciuta da tutti, persino da ARERA, come uno degli indicatori fondamentali per formulare giudizi sullo stato del servizio idrico. Ebbene, lì, a fronte di una media nazionale per cui le perdite arrivano ormai al livello abnorme del 42% nel 2018 ( dato ISTAT 2020), usando quella ripartizione tra Centro-Nord e Sud si arriva facilmente a sostenere la tesi di partenza. Ma se prendiamo il dato riferito alle singole Regioni, il quadro cambia non di poco: se è vero che le Regioni del Mezzogiorno stanno nella parte bassa di chi registra minori perdite, però il “ primato” negativo appartiene all’Abruzzo, con perdite che arrivano al 55,6% dell’acqua immessa in rete, seguita subito dopo dall’Umbria con il 54,6% e dal Lazio  con il 53,1%. Risultati decisamente negativi poi li presenta il Friuli Venezia Giulia, che, con il 45,7%, si situa sotto le perdite delle Regioni Campania e Molise. Allo stesso modo, se prendiamo i Comuni capoluoghi di città metropolitana, i risultati peggiori si ritrovano a Cagliari, Messina e Catania, con perdite superiori alla metà dell’acqua immessa in rete, ma situazioni critiche, con valori che oscillano tra il 30 e il 45%, li troviamo anche a Napoli, Roma, Genova, Venezia e Firenze. L’altra considerazione riguarda il fatto che è caricaturale l’immagine per cui i problemi starebbero praticamente tutti nel Mezzogiorno, mentre il resto del Paese se la passerebbe tutto sommato bene e, quindi, eliminato quel “bubbone”, avremmo sostanzialmente superato tutte le criticità presenti nell’insieme del servizio idrico. In realtà, anche qui, le vicende sono meno lineari di questa rappresentazione distorta. Le difficoltà e le criticità, sia pure in modo differenziato, sono relative a tutto il Paese. Se, per esempio, prendiamo un altro indicatore significativo, quello relativo agli investimenti realizzati, notiamo che essi, secondo quanto segnalato dalla relazione annuale ARERA del 2020, ammontano, in termini di media nazionale, nel periodo 2016-2019, a circa 44,5 €/abitanti/anno. Anche qui i dati sono disaggregati per macro-aree e quindi non consentono di svolgere una valutazione approfondita ( va detto, peraltro, che l’aggregato Sud e Isole ha realizzato investimenti pari a circa 35,5 €/ab/anno, quindi un dato distante, ma non così pesante come la narrazione sul divario Centro-Nord e Sud farebbe intendere). Quello che però balza agli occhi sono, però, altri due punti fondo: il primo è che tutto il sistema Italia rimane molto indietro rispetto alla spesa media UE, che si colloca attorno  ai 90 €/ab/anno e il secondo è che anche in questi ultimi anni, dove pure si favoleggia sulla ripresa degli investimenti, il loro livello è ancora inferiore a quanto realizzato nel periodo 1985-1990, prima che iniziassero i processi di privatizzazione, quando esso arrivava attorno ai 50 €/ab/anno. E questa la dice lunga sia sul fatto che il tema dello stato critico del servizio idrico, pur con differenze, riguarda l’insieme del Paese e che esso ha conosciuto un peggioramento a fronte delle privatizzazioni, invocate da molti commentatori interessati come salvifiche. Nè è pensabile che sia il PNRR a risolvere tali problemi, visto l’esiguità delle risorse messe a disposizione - poco più di 4 mld di € di investimenti aggiuntivi per la componente “Tutela del territorio e della risorsa idrica”- e anche il fatto che sono mal indirizzate – in proposito, basta pensare che al tema della ristrutturazione delle reti idriche sono dedicati solo 900 mln di € in 5 anni!

2. Non ci vuole molto a concludere che, in realtà, il cosiddetto water service divide tra il Mezzogiorno e il resto del Paese non è altro se non l’ennesimo pretesto per spingere un nuovo ciclo di privatizzazioni, proprio dove esse finora sono state meno estese. In particolare, è evidente che il modello di riferimento è quello delle 4 grandi multiutilities a controllo pubblico quotate in Borsa – IREN, A2A, HERA e ACEA – che progressivamente hanno acquisito la gran parte delle gestioni del Centro-Nord e alle quali oggi si offre come terreno di conquista e “modernizzazione” il Sud del Paese. Per chi nutrisse qualche dubbio, basta che vada a leggersi ciò che scrive il governo con il PNRR, il MITE con la sua nota di maggio alle Regioni, ARERA con la segnalazione al Parlamento di fine luglio. Nel PNRR si dice testualmente che “ precedenti esperienze dimostrano che nel Mezzogiorno l’evoluzione autoctona del sistema non è percorribile senza un intervento centrale finalizzato alla sua risoluzione. La riforma è quindi rivolta a rafforzare il processo di industrializzazione del settore ( favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati, con l’obbligo di realizzare economie di scala e garantire una gestione efficiente degli investimenti) e e ridurre il divario esistente ( water service divide) tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno”. Il Mite, a sua volta, precisa che per l’assegnazione delle risorse provenienti dal PNRR per il servizio idrico integrato “ è necessario che vi sia l’avvenuta costituzione degli Enti di Governo di Ambito e l’avvenuto affidamento del Servizio Idrico Integrato a soggetti industriali adeguatamente strutturati, efficienti e affidabili aventi adeguata capacità gestionale” e che “ il PNRR prevede che il 70% delle risorse riguardanti l’investimento in parola siano assegnate ai singoli progetti per i quali l’affidamento del servizio idrico integrato interviene o sia intervenuto entro settembre 2021 mentre il restante 30% ai singoli progetti per i quali l’affidamento interviene entro giugno 2022 (scadenza quest’ultima inderogabile e indifferibile). Quali siano i soggetti industriali adeguatamente strutturati, efficienti e affidabili per cui l’affidamento del servizio idrico sia considerato avvenuto nelle date indicate è stato chiarito da ARERA. Nella relazione periodica che essa svolge sullo stato degli affidamenti del servizio idrico – l’ultima del 6 luglio scorso- , ARERA evidenzia l’esistenza di un certo numero di affidamenti non conformi rispetto alla legislazione vigente, nel senso che questi sono stati effettuati senza rispettare le caratteristiche previste per la costituzione degli Enti di Governo di Ambito e/o per l’affidamento, in particolare relativo all’unicità della gestione del singolo ATO territoriale. Ebbene, questi affidamenti non conformi risultano diffusi in varie aree del Paese, ma in particolare nel Mezzogiorno, presentando forti criticità in Molise, Campania, Calabria e Sicilia, con la conseguenza che parecchi affidamenti in queste situazioni dovrebbero essere ridefiniti in tempi stretti, pena il non poter accedere ai finanziamenti previsti dal PNNR, aumentando peraltro il cosiddetto “ water service divide”, fatto implicitamente ammesso anche nella nota del MITE. Infine, sempre ARERA , non paga di tutto ciò, si spinge ancora più in là. Nella sua recente segnalazione al governo e al Parlamento del 27 luglio, essa arriva a formulare una sorta di suggerimenti al legislatore per adeguare l’attuale normativa relativa al servizio idrico in coerenza con gli obiettivi indicati sopra. In particolare, vengono individuati 4 punti da mettere in campo:

- definizione di tempi perentori entro i quali perfezionare gli affidamenti del servizio idrico da parte degli EGA o dal Presidente della regione;

- supporto tecnico per le situazioni definite critiche da parte di un soggetto a controllo pubblico;

- decorsi i termini perentori, nel momenti in cui gli affidamenti non fossero perfezionati, si arriva all’affidamento per 4 anni rinnovabili ad un soggetto societario a controllo pubblico;

- entro 6 mesi dalla scadenza dei 4 anni sopra previsti, occorre procedere ad un nuovo affidamento oppure alla reiterazione dell’affidamento al soggetto precedente per altri 4 anni.

Tutto questo in attesa della prossima legge sulla concorrenza, che dovrebbe uscire a breve e che ha il compito di chiudere definitivamente il cerchio, ponendo ulteriori limitazioni a quelle già esistenti per il ricorso alle gestioni in house nei servizi pubblici locali. Da quanto trapela, l’intenzione è quella di rendere queste forme di gestioni residuali, dovendo dimostrare che il ricorso ad esse è giustificato da situazioni che non consentono di rivolgersi al mercato, indicato come soluzione normale per l’affidamento dei servizi pubblici locali.

3. Il punto, però, è che le gestioni cosiddette “industriali” sono ben lungi dall’essere efficienti ed efficaci per la gestione dei servizi pubblici, a iniziare da quello idrico. In realtà, esse, anziché essere la soluzione del problema, sono una parte di esso. Prendiamo le 4 grandi multiutilities, indicate appunto come il modello di riferimento e diventate sinonimo di gestione efficiente e “moderna”. Non ci vuole molto a dimostrare che esse sono sì efficienti se si prende come indicatore di ciò la redditività aziendale, la capacità di produrre profitti e dividendi da distribuire ai soci pubblici e privati. Questa è la loro “vocazione”, non quella di offrire servizi utili e a costi adeguati alla cittadinanza. Lo dimostra lo studio che abbiamo condotto, a varie riprese, come Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, sui bilanci di IREN, A2A, HERA e ACEA. Da lì si evince in modo palmare quanto detto sopra a proposito degli obiettivi che intendono realizzare: basta riflettere sul fatto che, dal 2010 al 2019, in dieci anni, esse hanno realizzato, complessivamente e in termini cumulati, utili per 5 mld e 294 mln di € e distribuito dividendi per più di 3 mld, pari a circa il 58% dei primi! Risorse che provengono dai metodi tariffari di ARERA, che garantiscono livelli di profitto notevoli per i soggetti gestori, e che vengono sottratti agli investimenti e/o impediscono di fissare tariffe meno onerose per i cittadini. Questo dato grezzo trova conferma anche da un recente studio di fine 2019 di Paolo Peruzzi per Confservizi Toscana sull’impatto della regolazione tariffaria sui risultati economici-finanziari dei gestori del servizio idrico dal 2007 al 2018: lì si argomenta bene su come il metodo tariffario ha fatto crescere la redditività delle aziende, con relativo aumento degli utili, dei dividendi e anche della capitalizzazione, ma a discapito degli investimenti che potenzialmente si sarebbero potuto realizzare e portando quasi al raddoppio delle tariffe per gli utenti. Inoltre, si evidenzia come la ripubblicizzazione del servizio idrico, attraverso l’utilizzo della finanza pubblica, avrebbe comportato un minor onere tariffario del 12% nel 2018, che si accrescerebbe almeno al 19% nel 2028. Un ulteriore elemento che supporta la tesi per cui le grandi multiutilities – ma non solo loro- si muovono secondo una logica di efficienza aziendale, cioè avendo come obiettivo la redditività do impresa, ma non l’efficienza sociale, quella cioè legata agli interessi sociali e generali, ce lo dice un piccolo, ma emblematico, approfondimento sulla situazione delle perdite idriche in Emilia-Romagna, dove il servizio idrico è pressochè di totale appannaggio di IREN e HERA, una situazione ottimale per gli ispiratori delle privatizzazioni. Ebbene, esse, nel 2017, arrivano al 31,45% dell’acqua immessa, una percentuale inferiore al 42% di quella riscontrata a livello nazionale, ma comunque decisamente alta e significativa. Soprattutto, colpisce che questo dato è in crescita, e non di poco, negli ultimi anni, passando dal 25,6 % del 2012 al 30,99% del 2015 e poi appunto al 31,45% del 2017 ( dati Istat e Atersir).

4. Insomma, il disegno che si vorrebbe affermare è sufficientemente chiaro. Si muove da presupposti strumentali – il water service divide nel Mezzogiorno- con l’obiettivo di completare definitivamente il processo di privatizzazione del servizio idrico, dando, nello stesso tempo, il colpo finale allo stravolgimento dell’esito referendario di 10 anni fa. Peccato che quest’assunto ideologico non è in grado di dare risposte positive alla situazione critica del servizio idrico, nel Mezzogiorno e in tutto il Paese. E che per questo contrasteremo con la mobilitazione e le controproposte, come abbiamo fatto anche rispetto al PNRR, per far avanzare una prospettiva alternativa, basata sulla ripubblicizzazione del servizio idrico, l’incremento degli investimenti, livelli tariffari socialmente sostenibili, un nuovo intervento di finanza pubblica e ricorso alla fiscalità generale. L’unica che può garantire interventi volti al soddisfacimento degli interessi sociali e generali.

Foto di Antonio Manfredonio